L’oggetto sans-papiers[1]

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Sans-papiers, questo è il termine che interroga lo statuto attuale dell’immigrato. Ai giorni nostri lo statuto dell’immigrato consiste precisamente nel non avere statuto civile o legale nella comunità nella quale vuole entrare, che gli impone criteri sempre più restrittivi per accoglierlo. Una volta l’immigrato era colui che partiva da un paese per trovare un posto in un altro paese. Questo tipo d’immigrato esiste sempre meno. Cede il suo posto – o per meglio dire il suo non-posto – al cosiddetto sans-papiers.

Questo spostamento di senso è evidente nella lingua dei giornali, dei politici e dell’opinione pubblica. Il soggetto che un tempo era indicato come immigrato, si vede ormai attribuire un nome spogliato di attributi, piuttosto vuoto d’identità; insomma una sorta di nome senza nome: il sans-papiers. Al di là dello spostamento geografico, il vero spostamento è quello del discorso: il soggetto immigrato diviene un oggetto senza attributi al quale è tuttavia pregato di identificarsi.

Questo spostamento ha valore di indice. In effetti è l’indice di questo sintomo di fronte al quale l’Europa di oggi è divisa, il segno attualizzato di questa segregazione annunciata un tempo da Jacques Lacan in questo paragrafo spesso citato della sua Proposta del 1967: “Il nostro avvenire di mercati comuni avrà come contrappeso una sempre più dura estensione dei processi di segregazione” .[2]

Situiamo questo spostamento nella storia. Nel suo libro intitolato Il mondo di ieri, Stefan Zweig, che è stato interlocutore di Freud, rileva le prime tracce di questo viraggio. Prima del 1914, viaggiando come turista negli Stati Uniti, Zweig aveva deliberatamente scelto di fare l’esperienza della situazione dell’emigrante. Si era molto sorpreso per aver trovato in quei due giorni molteplici opportunità di lavoro e modi di vita, un inserimento facile nel mondo e nel discorso dell’Altro – un Altro che esisteva bell’e fatto. Molto più tardi, all’alba degli anni Quaranta, ci consegna la sua esperienza in questi termini: “Nessuno si informava della mia nazionalità, della mia religione, della mia origine, e – cosa che può sembrare fantastica nel nostro mondo d’impronte digitali, visti e rapporti di polizia – avevo viaggiato senza passaporto”.[3] Occorrerà nondimeno attendere l’inizio del XXI secolo perché questi meccanismi di controllo raggiungano le vette che si conoscono oggi. Così, gli aeroporti sono la metafora di un non-luogo permanente, di un non-posto globalizzato, dove si deve provare continuamente che non si è un sans-papiers.

Di conseguenza, l’oggetto sans-papiers presentifica l’inconsistenza stessa della norma quando questa pretende di regolare il godimento dell’Altro in una funzione che si vuole per tutti. Allora, cristallizzando ciò che non può essere riconosciuto come un soggetto di diritto, il nuovo oggetto sans-papier incarna e prefigura il destino di oggetto non riciclabile che tocca, uno per uno, il soggetto post-umano contemporaneo in ciò che ha di più intimo.

 

Traduzione di Francesca Carmignani

 

[1] Sans papiers: letteralmente “senza documenti”, “senza permesso di soggiorno”; in italiano si utilizza piuttosto l’espressione “immigrato clandestino” o “irregolare”.

[2]. Lacan J., Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 255.

[3]. Zweig S., Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (1942), Mondadori, Milano 1994.

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