Quando la legge diventa procedura

Le normative che regolano il funzionamento di una comunità come quella in cui lavoro,[1] sono molteplici e organizzate a livello sia nazionale che regionale, oltre che suscettibili di ulteriori specificazioni in sede applicativa. Così, se la legge si limita a definire genericamente la necessità che le comunità adottino delle procedure per la regolazione di una serie di attività, considerate “sensibili” in relazione alla sicurezza (come ad esempio la somministrazione dei pasti, la prevenzione degli infortuni, ecc.), le norme applicative spesso entrano nel merito delle procedure stesse, dettandone la forma e i contenuti, entrando di fatto a piè pari nello svolgimento dell’attività clinica della comunità.
Prenderò un piccolo esempio che riguarda la somministrazione delle terapie farmacologiche, rispetto alla quale, a fronte della necessità di una procedura per la somministrazione dei farmaci, la normativa della mia Regione prescrive che le terapie farmacologiche per tutti i pazienti debbano essere preparate periodicamente (giornalmente o anche settimanalmente) da un infermiere in contenitori standard, etichettati col nome del paziente che le assumerà, e che l’operatore presente nel momento dell’assunzione della terapia dovrà limitarsi a somministrarne il contenuto al paziente, senza di fatto sapere cosa il paziente sta assumendo.
E’ un esempio che mostra bene come la procedura spinga verso l’anonimato, in una logica parcellizzata che espelle il soggetto, producendo almeno un duplice effetto: dal lato del paziente l’effetto è paranoicizzante, in quanto non c’è un Altro della relazione con cui si possa costruire una fiducia (cosa sto prendendo? in quali quantità?). Inoltre, la procedura appiattisce l’effetto del farmaco sulla sola composizione chimica, cancellando gli effetti immaginari, simbolici e reali che il nome, la confezione, la forma del farmaco, oltre che il modo della sua assunzione portano con sé.
Dal lato dell’operatore l’effetto è quello di essere spogliato da una responsabilità, quella della preparazione e della somministrazione della terapia, che non solo lo fa diventare a sua volta un agente anonimo nei confronti del paziente, ma anche non gli permette di assumersi la possibilità e la responsabilità soggettiva dell’errore – che in questo come in altri momenti della vita della comunità può prodursi – poiché l’errore non è più ascrivibile e assumibile a livello del singolo (chi ha sbagliato? chi ha preparato i farmaci? chi li ha somministrati?).
Nella mia esperienza, a partire da una discussione collettiva in cui tutti gli operatori avevano mostrato il massimo dissenso verso l’applicazione della procedura indicata dalle normative, è stato redatto un documento ufficiale in cui veniva descritta e motivata la scelta di un’altra “procedura”, che prevede la relazione in presenza fra chi somministra il farmaco e chi lo assume. E’ stato necessario spendersi in diversi incontri e discussioni affinché tale modalità venisse infine approvata, “in deroga alla procedura ufficiale”.
[1] Svolgo la funzione di direttore clinico in una struttura denominata Le Villette – Comunità e Centri terapeutico-riabilitativi che ospita tre comunità e un centro diurno terapeutico-riabilitativi per minori e per giovani adulti.