Il rovescio della norma nella pratica clinica
Quando ho comiciato il mio lavoro in un servizio terapeutico (Irlanda, 2006), il mio direttore dichiarò con fermezza “non usare la psicoanalisi qui”, come se avessi idea di cosa volesse dire. Sapevo di avere un interesse per la psicoanalisi, stavo frequentando seminari e la mia precedente esperienza di analisi era stata “lacaniana”. Questo era quanto. Al fine di mantenere il mio lavoro e per molte altre sintomatiche ragioni, accettai la richiesta del mio direttore e iniziai un lungo percorso per apprendere tutto quello che potevo sulle pratiche di normalizzazione, quei programmi basati sull’evidenza che per un professionista inesperto servivano come rifugio dal “non-so-come”[1]. Cercavo di prendere le distanze dalla psicoanalisi e con mia sorpresa, mi ci stavo avvicinando. La posizione etica per quanto riguarda il bambino e il consenso dei genitori per intervenire, l’uso della contingenza per interrogare la funzione del sintomo e il mio investimento sulle singolari invenzioni, erano alcuni degli elementi del mio lavoro clinico che convergevano verso la letteratura sulla psicoanalisi applicata che iniziavo a scoprire.
Due anni fa, quello stesso direttore mi ha accompagnato ad un seminario ICLO-NLS, e da allora si è unito con me in un cartello. E’ inoltre interessato ad organizzare un atelier per bambini con autismo guidato dall’orientamento lacaniano.
Durante questo percorso di scoperta di come desideravo lavorare, ho visto alcuni professionisti che rispondevano alquanto sinistramente a soggetti autistici che non cedevano alle loro richieste. I terapeuti di svariati orientamenti che insistevano sulle pratiche di normalizzazione, sulla base di una promessa di efficacia, finivano poi per tormentare bambini e genitori. Tuttavia, ho anche avuto il privilegio di incontrare molti altri professionisti che, pur non avendo un interesse per la psicoanalisi, hanno comunque iniziato a rifiutare questo approccio invasivo e stanno fermamente sostenendo il rispetto del consenso del soggetto per il trattamento.
L’articolo di Bruno d’Halleux “Non senza i genitori”[2] ha avuto un effetto profondo sul mio lavoro. Il testo chiarisce che lavorare con i genitori non significa né far fare loro un lavoro analitico né associarli ai colleghi. L’articolo tratta piuttosto di come coinvolgere i genitori considerandoli partner nella “pratica pluripersonale”. Mi ha insegnato ad imparare dalle loro idee, a scoprire le loro invenzioni e a ricevere i loro interrogativi su cosa sia per loro essere genitori di quel particolare bambino.
È forse lavorare “fuori dalla norma” la norma per la psicoanalisi? L’idea del rovescio della norma nella pratica clinica è emersa da un caso clinico. La madre di Kevin aveva deciso di interrompere la sua sessione poiché “tutto quello che Kevin fa è girare”. “Girare” sulla mia sedia era la soluzione di Kevin per poter parlare della sua paura di essere arrabbiato (“è più facile se non ti guardo negli occhi”). Ho invitato la madre di Kevin ad una riunione di revisione e ho fatto grafici colorati dei progressi del figlio come lei stessa aveva misurato attraverso questionari standardizzati. Le ho anche dato un volantino sul gioco terapeutico che ho preso in prestito da un collega. Questo intervento ha permesso alla madre di Kevin di sostenere il suo lavoro. Le ha anche comprato una sedia girevole.
[1] N.d.t. Il testo originale usa l’espressione “not-know-how” contrapposto al “know-how” che in inglese significa competenza, il saper fare.
[2] ANTENNE 110, Le travail avec les parents, revue Préliminaire n°13, pubblicazione del Campo freudiano in Belgio n° 13, 2001, p. 25-37
Traduzione di Rachele Giuntoli
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